Google ha deciso di cambiare ancora una volta le regole del gioco. Con l’introduzione della AI Mode, il motore di ricerca più usato al mondo smette di essere soltanto un intermediario tra utente e contenuti: diventa un filtro attivo, capace di rispondere, interpretare e – potenzialmente – sostituire i web editor e i siti come li abbiamo sempre conosciuti.
La promessa è quella di una ricerca più intelligente. Ma dietro la facciata di efficienza si nasconde un cambio di paradigma che riguarda utenti, editori, professionisti del web e chiunque viva di visibilità online. E forse non è un male.
Cosa c’è dietro l’AI Mode di Google
La nuova modalità IA, finalmente sbarcata in Italia, trasforma la Search in una conversazione con un chatbot. Non si digitano più (solo) le parole chiave, ma domande vere e proprie, spesso complesse, alle quali Google risponde con testi generati dall’intelligenza artificiale, corredati da qualche link di approfondimento.
Invece di mostrare dove trovare l’informazione, Google la serve già pronta all’utente. E nel farlo decide anche quali fonti meritano di essere citate.
L’AI Mode è alimentata da Gemini 2.5, l’ultima generazione di modelli linguistici di Google, capace di gestire testo, immagini e voce nello stesso flusso. Può compiere una serie di operazioni in pochi secondi:
- rispondere a domande complesse;
- analizzare foto;
- riassumere documenti;
- proporre comparazioni tra prodotti.
Agentic skill: cosa potrà fare Google
Man mano che raccoglierà informazioni sull’utente, potrà anche agire per conto suo come un vero agente, prenotando un ristorante, verificando l’orario di un volo, facendo acquisti periodici o compilando form in maniera intelligente.
Non è un caso che si inizi a parlare di agentic skill o capacità agentiche: Google inizia a comportarsi come un soggetto attivo. Il motore di ricerca smette definitivamente di essere il portale d’ingresso ai nostri siti e diventa la stessa destinazione finale dell’utente.
L’utente cerca e trova subito con l’AI Mode
Cambia anche il ruolo di chi si affida a Big G per trovare informazioni. Smettiamo di cercarle su una piattaforma, iniziamo a chiederle a qualcuno – o almeno a qualcosa che simula il comportamento di un essere senziente.
Sul piano dell’esperienza utente, la novità è impressionante. Ricevere risposte dirette, contestuali e visivamente curate semplifica la vita. Lo sa bene chi già utilizza ChatGPT quotidianamente e ha imparato a interagire con le intelligenze artificiali sotto forma di chatbot.
Ma ogni semplificazione ha un costo. Con l’AI Mode, i siti web rischiano di diventare invisibili. Se la risposta arriva già nella pagina dei risultati, l’utente non ha più motivo di cliccare.
Il monopolio dell’informazione (e del traffico)
E in un ecosistema dove l’attenzione è moneta, l’intermediario che trattiene tutto il traffico si trasforma di fatto in un monopolista dell’informazione. Che diventa frammentata, parziale, non verificabile.
Certo, da Mountain View arrivano rassicurazioni sulla trasparenza e sul fatto che non mancheranno mai i link di supporto, sempre disponibili e sempre cliccabili. Ma nel mondo dell’analfabetismo funzionale e della pigrizia, quali sono le garanzie alla libera circolazione delle informazioni se tutto viene mediato da un solo grande attore digitale?
Ogni modello linguistico, poi, interpreta la realtà e genera risposte perfettamente calcolate in base ai bias acquisiti in fase di addestramento.
Un motore che non cerca più, ma fa da filtro, rischia di compromettere il libero arbitrio dell’utente – che già, a dire il vero, è schiavo del posizionamento, delle ad, di un algoritmo che non ha mai fatto l’interesse della verità e della qualità, nonostante i tanti claim arrivati negli anni.
C’è poi il rischio di far impigrire ulteriormente le menti, oggi ancora (poco) abituate a esplorare il web alla ricerca dell’informazione più vera o verosimile e già assuefatte da fake news e poca capacità critica.
Essere rilevanti per l’IA per non sparire
Per chi crea contenuti, l’arrivo della AI Mode impone una riflessione, già fatta a suo tempo con Overview. Non basta più scrivere bene o posizionarsi bene. Serve essere rilevanti per l’IA. Ciò significa produrre contenuti verificabili, autorevoli, strutturati semanticamente in modo che l’algoritmo di Google li riconosca come affidabili.
Ma anche accettare che la visibilità possa non dipendere più dai lettori, bensì da un modello che li rappresenta. Ma chi verificherà il verificatore (semicit.)? Se il web diventa una grande appendice dell’intelligenza artificiale di Google, che già ha mostrato grosse lacune e bug in passato, la partita non si gioca più sulla SEO.
Google sta ridefinendo cosa significa “cercare” e il concetto stesso di motori di ricerca, dunque di ottimizzazione.
Come accadde con l’introduzione di PageRank, questo cambiamento non sarà reversibile. L’AI Mode è solo la prima crepa visibile in un ecosistema che si sposta dal motore di ricerca al motore di risposta, dove l’intelligenza artificiale diventa filtro cognitivo tra noi e il sapere e accentra su di sé tutto il traffico.
Sarà più comodo per l’utente e anche più rischioso. Perché ogni volta che un sistema decide per noi cosa è giusto o utile, il web perde un po’ della sua libertà originaria — e noi un po’ della nostra.
Ma forse non tutto è perduto. Forse scopriremo di nuovo il piacere del villaggio globale digitale e delle community, in una nuova versione fatta di newsletter, podcast e blog di fiducia da trovare direttamente digitando sulla barra degli indirizzi, senza passare dal casello dell’intelligenza artificiale.

