Ha senso un ecosistema informativo che dipende da una sola azienda privata per essere trovato? La domanda torna oggi con più forza che mai dopo l’apertura dell’indagine su Google avviata dalla Commissione Europea. Bruxelles vuole capire se la site reputation abuse policy – l’insieme di norme pensate per contrastare le manipolazioni del ranking – abbia finito per penalizzare anche gli editori legittimi, riducendo visibilità, traffico e ricavi.
È un dettaglio tecnico solo in apparenza: quando un motore di ricerca domina il mercato come Google, un cambio di politiche non è solo un aggiornamento. Può scatenare un terremoto che si ripercuote sui guadagni di chi si occupa di informazione, quindi sull’occupazione di un intero settore e sulla libertà di stampa.
La libertà di stampa ai tempi dell’algoritmo
Formalmente, la libertà di stampa non è in discussione. Chiunque può pubblicare ciò che vuole. Peccato che per essere trovato debba necessariamente passare da un portone d’ingresso che si chiama Google.
Oggi il diritto a fare e ricevere informazione non passa dalla facoltà di scrivere, ma dalla reperibilità. Se l’arte ha bisogno di un pubblico per esistere, la notizia ha bisogno di lettori. Che giocoforza devono essere reclutati sui motori di ricerca.
La partita oggi si gioca contro un algoritmo che decide se il tuo contenuto è meno rilevante, meno utile, meno coerente. Così smetti di esistere per la maggior parte degli utenti anche senza alcuna censura, alcun divieto, alcuna legge bavaglio.
Perché la Commissione Ue indaga su Google
La Commissione Ue oggi indaga su Google per questioni di concorrenza legate all’articolo 6 del Digital Markets Act che regola il ruolo dei gatekeeper. Ma forse dietro c’è anche la volontà di mettere un punto allo strapotere e al monopolio di Big G, che decide chi merita di essere letto e chi no.
La site reputation abuse policy, questo è il dubbio di Bruxelles, starebbe facendo indietreggiare nel ranking gli editori che stringono accordi commerciali con la concorrenza di Alphabet e che, in generale, trovano forme di monetizzazione alternative ad AdSense e alle partnership con Mountain View.
Allo stato attuale, gli editori (aziende, testate ma anche singoli blogger) devono monetizzare per sopravvivere. Una delle forme più diffuse per farlo è ospitare sulle proprie piattaforme i contenuti di partner commerciali.
Proprio questa dinamica, del tutto legittima se correttamente segnalata, sembrerebbe però essere stata colpita dalle politiche di Google. Il risultato innesca un circolo vizioso. Se monetizzi troppo, vieni penalizzato e sparisci. Se monetizzi poco, vieni chiuso. E sparisci anche in questo caso.
La notizia oltre il motore di ricerca
In un mondo di penalizzazioni e algoritmi, con un unico attore che decide la sorte di tutti, temo che in futuro ci troveremo a fare i conti con tre diverse esigenze.
Indicizzazione più complessa su Google
La prima è la necessità di fare fronte all’avanzata dell’intelligenza artificiale anche sul piano della visibilità. Algoritmi sempre più complessi, con ranking automatizzato, personalizzato e sempre più difficili da interpretare metteranno a dura prova il comparto tecnico delle redazioni.
Ma se la visibilità sui motori di ricerca sarà sempre più meccanica, per chi scrive, si spera, continuerà a valere il comandamento dello user first. Dare valore al contenuto dovrà essere ancora più importante, soprattutto per quelle realtà che decidono di ospitare contenuti a pagamento. E anche questi dovranno essere di qualità e dovranno mettere l’utente al centro.
Modelli di remunerazione alternativi
Per quanto si parli di diversificazione, la realtà è che per milioni di persone l’accesso alle notizie è e continuerà a lungo a essere Google. E questa dipendenza crescerà man mano che la ricerca verrà integrata con modelli generativi e nuove forme di risposta sintetica.
Non solo: sappiamo che con AI Mode e Google Overview sempre meno persone aprano effettivamente gli articoli. I modelli pubblicitari basati sulle visualizzazioni diventano sempre meno sostenibili. L’altra grande esigenza sarà dunque trovare forme di monetizzazione che vadano oltre le logiche di CPM e CPC.
Sopravvivenza nel deserto informativo
I piccoli editori faranno sempre più fatica. Non per la qualità del lavoro, ma perché non possono compensare rapidamente un calo di ranking, un aggiornamento o una modifica dell’algoritmo.
A sopravvivere saranno i più grandi, i più strutturati, i più vicini agli standard imposti dalla piattaforma. Anche culturalmente. Lo abbiamo visto con la censura, de facto, delle notizie Propal. E lo vediamo ogni giorno navigando in un ecosistema informativo che ha perso la sua diversità.
Provate ad aprire la home dei big dell’informazione e confrontare quali sono le notizie principali, come sono scritte e commentate, verso dove portano il lettore. Siamo in un deserto che non permette a idee e pensieri di sopravvivere. E proprio la sopravvivenza in bilico tra motore di ricerca ed entrate pubblicitarie sarà l’importante missione di aziende e giornali.
Quale sarà il futuro dell’informazione?
L’indagine della Commissione Europea è un segnale importante che evidenza i pericoli dei monopoli digitali. È chiaro che sia nata per soddisfare le richieste dei grandi gruppi editoriali che hanno visto i loro ricavi pubblicitari in calo e ora vogliono la testa di Google.
Ma mette in luce anche tutti i problemi che riguardano la libertà di stampa in un’epoca in cui i contenuti hanno valore solo nel momento in cui vengono trovati. E se l’intero mondo dipende da un unico gatekeeper per accedere alle informazioni, è inevitabile chiedersi quale sarà il futuro dell’informazione.
A prescindere da ciò che succederà, come ho già scritto in altri articoli, sono fermamente convinto che ci sposteremo verso presidi di slow news e podcast, torneremo alle iscrizioni alle newsletter e ai feed RSS. Osserveremo i lanci di agenzia attraverso il vetro (distorto) della finestra di Google ma li approfondiremo su altre piattaforme.
Magari abbandonando finalmente il modello, obsoleto e fastidioso, di banner, pop-up, pop-under, paywall ricattatori e video invasivi. E dando al lettore la facoltà di pagare per contenuti di qualità.
